Sunday, May 19, 2019

La caduta dell’impero, Beyoncé e le persone

Nella curva discendente di Giambattista Vico, l’impero, il capitalismo, la corsa sfrenata all’arricchimento monetario e materiale sta arrivando alla frutta. Probabilmente un cambio de paradigma avverrà presto, o almeno si spera, ma non sarà il prodotto di una redenzione, o un progresso collettivo che ha spinto l’umanità a rendersi conto di quanto faceta fosse quest’idea di sviluppo. Ideali socialisti e comunisti, che molto hanno fatto nel campo dello sviluppo sociale, non sono riusciti a tenere la rotta quando incaricati di gestire nazioni. Movimenti hippie hanno avuto un impatto nel corto termine ma son ben presto diventati una moda. Integrazioni sovranazionali hanno dato dei contributi sostanziali, ma a un ritmo troppo lento per stare al passo del cambio. Stiamo arrivando alla frutta, o meglio, la frutta non cresce più: il clima sta dando allarmi difficili da ignorare, che imporranno manu terra un nuovo modello. Mutare o perire. Ma di questo ne parliamo un’altra volta.

Anche nel periodo di decadenza di un impero però, nella tristezza della rassegnazione dell’industria zoppa, del ceto medio insoddisfatto che si sorprende nuovo reazionario, dell’individualismo vile e sadico che lascia poco posto a una visione collettiva, brillano ancora antichi sfarzi. Lo spettacolo continua. Per fortuna. In un’arena chiamata Coachella, moderni gladiatori si affrontano al suon di note. Fuori, l’invasione degli oceani e la crescita dei barbari. O il contrario. In scena, show mirabolanti, apoteosi musicali, momenti d’arte che potrebbero essere tra le espressioni più alte della cultura moderna. E in mezzo a tutto ciò, un’esibizione che cambia le regole del gioco. Di cui io, relegato alla periferia digitale del villaggio globale, vengo a conoscenza solo un anno dopo, ma di certo questa non è una buona ragione per non rifletterci.

Homecoming di Beyoncé, è un manifesto popolare dell’affermazione del sé, della donna, della cultura condivisa da un gruppo. Chi cazzo se lo sarebbe aspettato 15 anni fa mentre bevevamo un Bacardi Breezer alla sagra del paese ascoltando Crazy in Love, eh? Difficile da etichettare come letteratura o musica colta, magari più sempliciotta di un pezzo del Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza, ma non per questo, o forse proprio non per questo, meno importante. Non è Nina Simone, né Malcom X, né Chimamanda Ngozi Adichie, anche se li ritroviamo tutti dentro. È Beyoncé che dice “Ooh, boy, sembra che ti piaccia quello che vedi, perché non vieni a dargli un’occhiata?” riferendosi al suo culo. E poi aggiunge che forse sto boy lo potrà pure avere sto culo, basta che non lo tocchi. Parla di rispetto, a modo suo, a modo popolare.



Parla di empowerment delle donne, non di quote rosa (quote rosa!!! Chi è quel coglione che davvero pensava che chiamarle quote rosa andasse in direzione di un empowerment femminile?), né espressamente di diritti civili. Non usa espressioni idilliache, ma i concetti sono tutti lì, a disposizione di un popolo che magari non ha fatto l’università, che si trova a lottare per il pane quotidiano, ingabbiato in un modello capitalista che lo tratta da consumatore e non da persona. O a dei privileged whities che hanno i soldi per andare al Cohacella. E la signora Carter, strizzatina d’occhio al suo matrimonio con Jay-Z e al suo essere madre, riesce ad essere donna, madre, sposa senza essere sottomessa ad un uomo, senza annullare la sua persona, ma al contrario proponendo valori di eguaglianza e affermazione. Non da rivoluzionaria, ma da riformista, sfruttando i canali del paradigma dominante.

E poi, la cornice del documentario serve quasi a dire “tu, intellettualoide che magari non hai capito quanto importante sia per una donna nera dei bassi fondi reclamare l’ownership del proprio culo, ti metto due tre citazioni colte, e delle frasi elaborate che ti fanno capire che volevo dire qualcosa d’importante”. Nel bailamme dell’industria pop, che macina grana vendendo talento e tendenze, Beyoncé riesce a passare una voce di consapevolezza e di cambio. Siamo ancora distanti da una società equa, ma il documentario sembra volto a sottolineare che il cambio si fa giorno dopo giorno e si fa con il popolo, mi gente. L’energia incredibile che sprizza da tutte le scarpe da ginnastica, i fiati, le facce sulla scena ci ricorda che c’è del buono e il buono siamo noi, le persone. La nostra passione, la voglia di fare, l’anelare a qualcosa di più. We are human, after all.

Sunday, October 15, 2017

Prudence, la mutilazione genitale e un pop-up concert a N’Djamena


Al dodicesimo parallelo Nord, confine tra un arido Sahel e una più lussureggiante zona tropicale, avvisaglie di inverno si traducono in pomeriggi più miti (tra i trenta e trentacinque gradi centigradi), addolciti da un livello accettabile di umidità che permette a labbra e pelle di non diventare eccessivamente aride. Un onnipresente strato di polvere avvolge la città, smorzando la forza dei raggi del sole. Il brulicare di persone indaffarate a vedere come sopravvivere anche oggi non si ferma nemmeno nelle ore più calde del giorno. Le pause sono scandite solamente dal richiamo del muezzin, interi quartieri si bloccano all’unisono come se giocassero a Uno, due, tre stella!

Miglior momento per prendere la moto. Per strada c’è solo qualche bambino ancora troppo piccolo per comprendere la grandezza di Dio, dei paraplegici abbandonati da Dio che trascinano i loro corpi camminando su mani dotate di infradito, e qualche SUV guidato da visipallidi a cui piace giocare ad essere Dio. Arrivando a Paris-Congo, il panorama cambia. Si capisce subito la profonda fede cattolico/protestante del quartiere dal numero di birre che sudano sui tavolini al lato della strada. I ragazzi sono già tutti lì, incredibilmente puntuali per un paese dove l’orario è un privilegio di pochi, con il loro strumenti in mano, pronti per un pomeriggio che ha già dall’inizio un sapore magico.

Una decina di casse di altezza umana sono pronte ad amplificare i loro virtuosismi. Non c’è pubblico. Fino a mezz’ora fa non c’era neanche un concerto. Un giro di birrette, due chiacchiere con un collaborativo padrone della sala prove del quartiere, la voglia di sperimentare qualche nuovo suono, ed il concerto è fatto. Pure Prudence è arrivata, con il suo fantastico sorriso e quegli occhi curiosi. Canta canti che accompagnano il raccolto nella parte Sud del Ciad, dove ha passato la sua infanzia. Il suono del balafon (xilofono pentatonico in legno) e della garaya (chitarrina a due corde tipica dei popoli nomadi) titilla la curiosità di qualche passante, molti dei quali pur essendo nati e cresciuti a N’Djamena hanno dei forti lacci spirituali e culturali con i villaggi di origine delle loro famiglie.

Si suona, ci si diverte. Probabilmente le sonorità elettroniche sorprendono più di qualcuno tra il pubblico, ma il resto è conosciuto, viscerale. Un gruppetto comincia a battere le mani. Lo show è assicurato. Noto che Prudence sta sudando copiosamente, quasi come le sopracitate birre, nonostante le sopracitate avvisaglie d’inverno. Mi racconta di avere la malaria, e le chiedo perché non sia rimasta a casa nonostante la febbre molto alta. Sorride e dice: volevo venire qui! La fierezza con cui lo dice, la gioia che sembra provare nel dirlo e la luce che traspare dai suoi occhi mi riempiono di emozioni. 

Secondo un’amica che lavora per un ONG cazzuta, l’85% delle donne in Ciad subisce la mutilazione genitale tra i 10 e i 20 anni. E’ la madre che sceglie quando la figlia è pronta per tale cerimonia. Farlo è una questione di onore per la famiglia tutta. Sei hai una figlia con clitoride, riceverai una dote minore dal futuro sposo, se qualcuno mai avrà il coraggio di chiederla in moglie. Meglio tagliare via quell’inutile parte del corpo femminile che rischierebbe di renderla più propensa ad impulsi sessuali, meno succube al marito, e certamente una donna indegna. Sporca. Le giustificazioni sanitarie utilizzate per cercare di dissuadere madri dal perpetrare tale gesto sulle loro figlie (spesso il taglio provoca infezioni che vengono lasciate incurate), non sembrano sortire effetto. 

L’instancabile e globale sforzo di dominazione del maschio, che ottiene il suo obbiettivo, giorno dopo giorno. In questo angolo del piantea, lo fa in nome di una norma culturale bassata sull’onore e la vergogna. Altrove, lo fa per altre vie. Non so se Prudence (nome inventato, naturalmente) sia mutilata. Non lo saprò mai. Ma quel momento di gioia, quella volontà di cimentarsi in qualcosa di nuovo, quella curiosità che ha dimostrato questo pomeriggio dice tutto. Ed è una soddisfazione per il mondo. Nonostante la malaria, nonostante poi abbia dovuto lavorare in fretta per preparare il cibo per tutta la famiglia, nonostante questo mondo sia votato più alla dominazione del prossimo che allo sviluppo del talento. Viva il clitoride.

Thursday, December 29, 2016

Notte di fuoco con Bob Marley, i cercatori d’oro e il Che


Dopo una decina di giorni passati al bordo del Sahara - nomadi in mezzo ai nomadi, cercatori d’acqua tra i cercatori d’oro, muniti solo di due Land Cruiser che fungono da trasporto, cucina e, messe a L, riparo dal vento notturno - si torna verso Sud, a Abeche, grande capitale del sultanato del Ouaddai. È la prima vera città dopo il deserto, dove si incontrano taxi-richò motorizzati, si concentrano i prodotti libici o sudanesi entrati più o meno legalmente dalle incontrollabili frontiere del Nord, si respira l’aria di una città dell’Africa centrale – smog mischiato a polvere, puzza di piscio e rifiuti, grida di bambini e versi di animali vari.

È pure la prima città dove si può mangiare qualcosa che non sia capra. Quindi, dopo una doccia che non scalfisce neanche minimamente lo strato di sabbia e polvere che si è incollato alla pelle durante le scorribande desertiche, si esce a mangiare. Un pollo con patatine, del manzo con spinaci e un pesce che non si sa bene da dove arrivi visto la cronica mancanza d’acqua della zona, convincono il gruppo a continuare la serata in uno dei dancing della città. La scelta è ardua: Chez Tantine Koussa, di fianco alla moschea centrale, che in ore non sospette diventa il VIP dancing, in una sala ben chiusa e insonorizzata così il vicino – un certo signor Allah - non si lamenta, o il Doug dancing.

Si va a tutti e due, naturalmente. Ma la storia succede al Doug, la seconda sera passata in città, su gentile concessione dell’unico aereo giornaliero Abeche - N’Djamena che non è partito. Il Doug è uno spazio all’aria aperta, gioviale, con tavolini e una pista da ballo al centro. È delimitato da mura di recinzione da una parte e da una casa-albergo dall’altra. Sui muri della casa si vedono disegni di rivoluzionari quali Thomas Sankara, Bob Marley e El Che, che diffondono buone vibrazioni sugli avventori, nella maggior parte uomini. Dietro la casa i bagni, ovvero uno spazio di 4 metri quadrati con un buco in mezzo e la scritta “la propreté d’abord”. E, affianco ai bagni, delle costruzioni improvvisate di pali e paglia creano vari spazi bui e discreti.

5000 franchi una relazione – 7 euro e mezzo, 2000 l’affitto dell’antro, si dice. Poi, se sei veloce, cazzi tuoi: il prezzo non cambia. Vedo uomini entrare e uscire poco dopo con un volto di soddisfazione. Tra di loro c’è chi spenderà quasi tutti i proventi delle pepite d’oro trovate più a Nord in alchol e puttane. Io torno a sedermi, cercando la mia Gala tra le varie che popolano il nostro tavolo. E in un batter d’occhio, dozzine di persone corrono disperate verso l’uscita, schiacciandosi e spingendosi tra le urla. Dietro la casa, un falò. La musica si ferma. Fiamme alte una ventina di metri divampano e illuminano a giorno il Doug dancing. Io mi cago sotto e mi avvicino all’uscita, ma non mi mischio all’ingorgo, sarebbe più pericoloso. Altri al tavolo restano seduti a godersi lo spettacolo.

Dopo poco le fiamme si attenuano. Di nuovo al tavolo, arriva un altro giro di birra. Dieci minuti e la musica ricomincia. Restano una cinquantina di persone, che si alternano sulla pista. Anche noi facciamo un giro su qualche makossa o un coupé decalé. Qualcuno mormora su una lotta tra locali a Abeche – ma sono solo due! – qualcun altro parla di incendio colposo. Sta di fatto che qualcuno non lavorerà più finché le baracche non saranno ricostruite. E la vita continua, al di là dei giudizi di valore e la morale. Qui, come in molti altri luoghi di questo paese, la resilienza del genere umano è incredibile.


Wednesday, October 12, 2016

Mi Cuba - La calle

El pastel de guayaba. El rico y caliente pastel de guayaba. Olor a petróleo de 10 pesos al litro por la izquierda, que se pega a la ropa y sublima los perfumes baratos de jineteras aburridas en las esquinas. Personas abrazadas en el Malecón miran al cartel “Viva Fidel", recién puesto en honor de su 90 cumpleaños, o tal vez buscan, en el horizonte turquesa, la orilla de la Florida, sinónimo de esperanza de renovación, familias divididas y sueños prohibidos. Oye linda, tú culo no le da razón a Niuton... y quién sería ese loco? Una timba de Habana D’ Primera llena la calle, desafiando el ruido asordante de los motores diésel de los años 80. Ayer un turista me dijo que en Europa tienen problemas con la capa del ozono, te imaginas si en Cuba eso fuera un problema de verdad? Las cajitas blancas de plancha’o pasan de mano en mano, desafiando la inmovilidad del tiempo cubano con una leve borrachera permanente. Galletas y palitroques, calidad especial, aiii cualitiii. Músicos talentosos dispensan momentos de fácil felicidad a turistas ansiosos de escuchar una vez más la canción del Che. Éste es tiempo virtuoso y hay que fundirse en él. La compañera de la vigilancia del CDR anota en una libreta escolar lo que fulano lleva en una jaba demasiado cargada por ser en sintonía con los valores de unidad, austeridad y altruismo propios del comunismo caribeño. Psss... Quieres tarjetas a tres fula la hora? Fichas de dominó son lanzadas con tremenda guapería en banquitos ubicados en el medio de la calle. Si preguntaste o averiguaste por mi, ahora estoy mejor que nuncaaaa. Para hacerse la platica un viejo curco recoge latas de Tú Kola, versión anti imperialista y azucarada de la Coca Cola, además de ser ingrediente fundamental para un verdadero Cuba Libre. Maní, maniiií... Gente al lado de la calle hace señas misteriosas para alguien que no se haya nunca subido a un almendrón. Socialismo o muerte. 

Despedirse de Cuba yendo al aeropuerto en un Chevrolet convertible del 56 es una emoción única. No por qué el convertible sea un carro bonito, o por qué dé a los chismosos material para empezar sus rituales diarios. Es única por qué, una vez más, tal vez la última para un tiempito largo, uno de puede conectar con la calle cubana y bañarse en su alma. No hay ventanas que te separen de la calle, no hay distinción de temperatura como entre el microclima polar que se encuentra en los taxis del estado y el calor tropical de afuera, no hay barreras que limiten él sonido... Tú ERES la calle. Claro, no todo el mundo puede permitirse de subirse a un convertible, los boteros son ejemplo muy evidente del egoísta interés individual, como dijo Fidel en 1967. Pero no es importante lo que tienes debajo del culo, lo espectacular es lo que te rodea. Amigos. Y la calle habanera. Esta cosa que cada vez te come, te saca el alma, le da dos golletazos y te deja allí tirado en el piso como un borracho que se ha tomado una botella entera de ron de la bodega sin refresco. 58 años de sueño revolucionario han creado una realidad paralela, aislada y excepcional que plasma cada día el carácter de la gente, creando códigos, usos y normas no dichas que en dos años he podido a penas aprender, pero que se resumen en la expresión cubana, pero cubana, cubana, cubana: en la lucha. 

Bueno, y yo esta calle he tenido la oportunidad de compartirla con varia gente. Entre otros, la sonrisa infinita de Vivian y su eterno positivismo, las camisetas de Olivier, su manera de reír y su capacidad de hablarte de todo, el pragmatismo de Gretel y su altruismo, las sabiduría y alegría de Yolanda, el instinto de protección de Angela, el soul de Daymé, las risas con Oleksandr, Alice líder de innumerables fiestas, Marieta y su infinita gozadera, el cariño de Elizabeth, el eterno peregrinar de Paola, el calor humano de Angelo y Cinzia, la amistad de Alessandro y todos sus hidráulicos, la integridad de Laneydi, el talentoso Kevin, los saltos de Víctor, el bomberismo personificado llamado Michele, Julio Cesar, Geidis, y Emmanuel de la RIAM, el infinito altruismo de Emanuele, el grande futbolero japonés llamado Marin, las historias de Fanny, los Futbalseros, la sinceridad de Marianna, los consejos de Marco y Aimé, la gana de compartir de Rocio, Anna y su búsquedas, los bailes de Simone, la disponibilidad de Lídice, Lucas y su genio, los profeso de la FCOM, la profundidad de Audrey, Clémence y su realismo mágico, De Lawyer o el imprevisible Alberto, la felicidad de Lea, Giuseppe mente intrigante, el buzo Javi, las poesías de Lis, las competentes chicas del INIE, Maurizio y sus cuentos, el alma musical de Thomas, Yuli, Ray y la alegría de Paso a Paso, los djs cubanos como Jigue, Djoy, Whichy, Kike y Alex, Ricardo y sus contactos, la continua Luisa, los maratones de Alizée, el sano izquierdismo de Gabriele, la simpatía de William el doctor, Rosendo y las parrandas, la tranquilidad de Eleonora, Dalia que conoce a todo el mundo, José Juan y su abertura, las charlas de Pablo, Blandine y su moto, la elegancia de Joana, PB y sus mapas, el taxi casi siempre roto de Raydel, los puros y los cocteles de Yojaine, el amor de Claudio y Yudith, Aizel líder en la actualización, la tribuna Siboney, Marie y las pizzas, Marie y sus disfraces, todos los amigos que han venido a ver a Cuba antes la invasión norteamericana, Sandor que gana al dominó, la napocubana Matilde, los compañeros de los territorios y Yáñez, Julio y el kite, la generosidad de Myrta, la velocidad y honestidad de los discursos de Tony, y Ben simplemente increíble. Dulcis in fundo, Clara, insustituible compañera de viaje.

Esa ha sido mi Cuba, esa ha sido mi calle.



Tuesday, September 20, 2016

Yordan, l'almendrón e le tentazioni

Le fievoli luci dell'Avana di notte mi rilassano. Il traffico, fenomeno raro già durante il giorno, è inesistente. L'atmosfera è ferma nel tempo: la maggior parte delle macchine in circolazione è di produzione americana degli anni 50, o di origine russa degli anni 80. Molte si fermano d'improvviso, non appena i deboli fari riescono ad illuminare delle mani che sporgono dal marciapiede segnalando la ricerca di un taxi. Lavoratori e lavoratrici del sesso confondono i tassisti con gesti simili, e molti di noi ci cadono, investendo i guadagni di una serata in effimere parvenze d'affetto.

Io, come ogni notte, cerco di guadagnarmi il pane o, visto che siamo a Cuba, il riso con i fagioli. E un po' di maiale, perché no. Dall'Avana Vecchia, passo per Centro Avana, percorro tutta 23 fino al ponte sull'Almendares, dritto per Marianao, con destinazione La Lisa. E viceversa. Itinerario fisso, taxi collettivo, 10 pesos cubani a corsa, raccogliendo e lasciando clienti nel cammino. Poi, chiaro, se becco qualche turista o nuovo ricco che vuole un taxi diretto, li porto dove vogliono, e lì si che ci faccio la cresta. Son già due anni che faccio il botero con il mio Chevrolet del 53, motore diesel Toyota del 1993, cilindro di 95 millimetri, e ormai riconosco a chi posso spillare un dollaro in più. 

Non ne sapevo niente di meccanica quando ho cominciato, ma ho dovuto arrangiarmi come ogni buon cubano: far andare la macchina è questione di esperienza e un po' di realismo magico. Laureato in meteorologia, come ogni buon universitario che riconosce l'investimento fatto su di lui dallo stato, ho trascorso i due anni obbligatori di lavoro di utilità sociale all'aeroporto nazionale, elaborando le previsioni del tempo per tutti gli aeroporti del paese per 23 dollari al mese. Quando ho cominciato a non frequentare più gli incontri del Partito, ai quali ogni buon lavoratore partecipa, nel mio dossier sono apparse lamentele sulla mia condotta professionale. Così ho deciso di lasciare la Gioventù Comunista, di cui facevo parte dai miei 14 anni come ogni buon giovanotto, licenziarmi dall'aeroporto e dedicarmi al trasporto di passeggeri. 

La macchina, o l'almendrón come viene chiamato affettuosamente dai cubani per la sua forma a mandorla, non è mia, naturalmente. Un macchina così costa minimo 14 mila dollari. Devo dare 60 dollari giornalieri d'affitto al proprietario, tutto il resto va a me. Il proprietario mica vive a Cuba, naturalmente, sta a Miami. Io riesco a racimolare 250/300 dollari al mese, il triplo di un medico chirurgo, vivendomela alla grande nel cinquantottesimo anno della Rivoluzione. Non ho la licenza di taxi, naturalmente, quindi devo sta attento alla Polizia ed essere pronto a dare qualche contribuzione volontaria di tanto in tanto. Tutto nel nome dell'efficienza e l'altruismo della Rivoluzione, naturalmente. 

Il problema è che ho quasi trent'anni. E se faccio due conti, il tempo non mi basta. Mi servono almeno 9/10 anni per mettere da parte quei 7/8 mila dollari necessari per comprarmi un appartamento decente, da pagare in nero in contanti o su un conto in Spagna, perché il valore catastale della casa qui è di 300 dollari. Poi devo ristrutturare e adattare le 2 stanze alle mie necessità. Se continuo a botear tutte le notti senza sosta, ai 40 posso pensare di aver dei figli. Però, tra un cliente e l'altro, sento che sono fatto per fare qualcosa di più che il semplice autista. Ho delle capacità che sento di non sfruttare al massimo.

L'unica speranza di cambiamento è andarmene prima che sia troppo tardi. Sto cercando qualcuno, preferibilmente una donna europea o canadese, che possa sposarmi. Ci mettiamo d'accordo sul prezzo, sta con me giusto il tempo per poter aver la residenza e lavorare ed è fatta. O sennò, applico per un visto in qualsiasi paese dell'America latina che me lo possa concedere, ci vado e da lì rimonto piano piano fino agli Stati Uniti...  una ragazza mi ferma su 23 all''incrocio con 18. Alta, mulatta con un seno prosperoso e occhi da gatta, avrà poco più di vent'anni. Sa da profumo economico, di quelli che imitano le grandi marche. Va al Bolabana, uno dei locali top di reggaeton della notte capitalina, e mi chiede se l'accompagno. Arriviamo, parcheggio, entriamo e ci prendiamo due rum. E poi altri due. I  problemi aspetteranno domani. La unica esperanza es en el siguiente trago.

Monday, June 20, 2016

Ode al disordine – Deliri inconsueti di un lunedì mattina

Sono solo, abbandonato e inerte. Distante dal tubo, non riesco a dare un senso alla mia esistenza. Sono preoccupato perché, non essendo attaccato al tubo, un fino strato di sostanza viscosa piano piano si sta seccando, e io non posso evitarlo. Sarà complicato superare quella otturazione creatasi all’apertura del tubo la prossima volta che qualcuno farà pressione sul tubo, mi viene da pensare. Il tubo, quel belloccio, sembra essere così sicuro di sé. Pieno, rotondo e longilineo allo stesso tempo, ornato da colori brillanti e frasi che infondono sicurezza. Coprire il tubo, questa è la mia funzione. È la mia ragion di vita? E il tubo si merita ciò? Non so, ma senza di lui mi sembra di essere nulla... Che bello è il tubo, ha uno charme inimitabile. Certe volte, vorrei essere come lui. Eppure mi fa incazzare, con quell’aria superba e egoista. Sta lì, adagiato su un lavabo o dentro un contenitore di ceramica, e sembra non aver bisogno di nessuno. Ma poi vedo che ogni tanto fa uscire quella sostanza pastosa che alberga, e mi viene da pensare che, in fondo, è altruista. Mi capisci? Sono ossessionato con il tubo.
Questo è ciò che il tappo del mio dentifricio mi ha confessato questa mattina. L’ho riportato in prima persona per non falsare quelle parole semplici seppur cariche di significato che mi hanno dato il buongiorno in un consueto lunedì. L’ho visto li, dopo un weekend fuori casa, affranto di aver passato così tanto tempo lontano da ciò che identifica come la sua ragione di vita. E, inevitabilmente, mi sono chiesto: che cos’è il tappo intrinsecamente? Non può essere anche lui riconosciuto come un oggetto a sé stante, o è obbligato ad essere considerato come un complemento di una bottiglia di acqua frizzante, o un tubo di dentifricio, o una crema per il viso? Che problema c’è a dare un’identità al tappo? C’ho pensato a lungo, mentre facevo un po’ di yoga per risvegliare le membra e il cervello. E la ragion d’essere del tappo ha scatenato, in uno di quei consueti voli pindarici che la mia mente dipinge, un parallelismo inatteso sull’ordine e il disordine delle cose. E sui limiti umani.

L’ordine è armonico, corretto, morbido. Però è un fottuto conservatore, bisogna ammetterlo. Perché l’ordine è strettamente legato con la tradizione, con il normale, con il comune. Con l’accettabile. Non si è mai sentita una mamma dire: “Vai a mettere in disordine la tua camera” (solo la Pagnini ha osato dirlo, sottolineerebbe qualche siddino). Il disordine è anticonformista. Un po’ anarchico, forse. Però è la fucina dell’innovazione. É la spinta schumpeteriana della distruzione creativa dove il progresso e l’innovazione radicale sono il frutto di un cambiamento dei fattori in gioco, non un semplice rimescolamento. È l’anti gattopardo. Dà la possibilità di esplorare l’inesplorato e, per questo, cambiare, sperimentare, superare i limiti umani. Limiti che ci autoinfliggiamo? Questo casomai lo trattiamo in un altro post.

Allora mi sono alzato dal tappetino dove facevo yoga, sono andato verso il bagno e ho detto al tappo del dentifricio: “non preoccuparti, il disordine è creativo”. E sono andato al lavoro felice.

Tuesday, May 3, 2016

Vita Spericolata... o una notte all'Avana Vecchia

Ale mi aveva detto che oggi avrebbe aperto la sua caffetteria, Vita Spericolata, e io ci avevo creduto. Esco tardi il lunedì dal lavoro, almendron (taxi collettivo) fino al Capitolio e mi immergo nella sozza promiscuità dell'Avana Vecchia. Arrivo in calle Sol, tra San Ignacio e Inquisidores, davanti alla presunta caffetteria, ma non c'è segno di vita. Grido alla vicina pensando ne sappia qualcosa, invano. Allora vado a prendere due Bucanero, una per me è una per Ale. Lo aspetterò sorseggiando.

Mi siedo sul marciapiede davanti la caffetteria. Una signora sui centoventi chili, con una canottiera attillata che evidenzia gli abbondanti giorni felici a base di maiale con riso e fagioli, esce dalla casa alle mie spalle e io la saluto. Di dove sei che fai, chiede lei. Anch'io le chiedo di dov'è, lei ha l'accento orientale, sottolineo. Si, risponde, sono palestina (come chiamano gli orientali a Cuba). In due minuti la conversazione si fa interessante, e ci raggiunge pure la sorella. Amairis e Niurka sono venute all'Avana negli anni d'oro del socialismo cubano, dove i contadini erano la classe sociale più benestante (in un paese senza classi sociali, ovviamente). Non come la gente dell'Avana, dice Niurka, che beve una birra e va a letto con lo stomaco vuoto. Il contadino beve rum, mangia maiale, e sfoggia la sua pancia come un trofeo. Altri cinque minuti e già mi hanno affibbiato un santo della religione afro cubana, Obatalà. E' furbetto come te, aggiunge Amairis, quel tuo sorriso dice tutto. Alla fine entro a casa loro e mi fanno vedere i piccoli altari con totem dedicati ai loro santi, ceramiche colorate adornate con penne di animali, conchiglie e chiocciole. Poi Niurka mi mostra le foto della figlia ventisettenne con la nipote... sarebbe un matrimonio di convenienza, vi sposate così tu puoi prendere casa qui. È un buon momento per investire all'Avana, analizza. Io le lascio una memoria usb con la musica che avevo preparato per Ale, la saluto con gioia e mi avvio verso il Capitolio per tornare a casa.

Sto finendo la seconda Bucanero (mica è colpa mia se Ale non è mai arrivato), è un tipo con il bici taxi, l'ennesimo, cerca di attaccare bottone. Ma questo, Taylor, è simpatico. Mi chiede dove sto andando a ballare, io mi giustifico dicendo che sono stanco. Lui pure aggiunge affranto che stasera non andrà a ballare, c'è stato per gli ultimi quattro giorni di fila però sai com'è dopo se non puoi pagare niente alle ragazze nessuna ti guarda; quindi stasera lavoro. Ah, ti do il mio numero che così giovedì andiamo assieme alla discoteca dell'hotel Vedado. Io prendo il numero, pensando che sarà il tipico numero che vedrò tra due mesi nella rubrica senza riuscire ad associare una faccia alle cifre.

Va beh, sono stanco. Ma pure affamato. Mi fermo in questa creperia in calle Muralla che mi aveva catturato l'occhio all'andata, un'oasi felice tra due edifici diroccati. Salgo al secondo piano e trovo un simpatico quadretto dove Christophe, un francese vestito da hippie, il cui spagnolo ha inflessioni messicane, intrattiene il tavolo accanto, popolato da una coppia locale, imprecando contro l'inciviltà dei cubani e la loro incapacità di ribellarsi contro FCC (Fidel Castro coglione, come lo battezza lui), mentre sorseggia del rum Havana Club che tira fuori dallo zaino senza farsi vedere dai proprietari. La coppia ha reazioni differenti: Alvaro si chiude in un silenzio di protesta, non valeva la pena parlargli mi dirà dopo, mentre José, quasi per evidenziare l'inciviltà del suo popolo, sfoggia un perfetto francese che usa per esporre i suoi argomenti. La conversazione si chiude con José che dà indicazioni per andare ad un festival di rumba a Christophe, il quale chiede se ci sia una maniera per entrare senza pagare. Io finisco di mangiare, scambio due battute con la coppia e la proprietaria del locale, ed esco, deciso di avviarmi verso casa stavolta. Sarà la volta buona?

Sempre in direzione Capitolio, osservo le saracinesche dei bar che si chiudono, e dei vecchi molesti che ammiccano a ragazze di passaggio. Passo davanti alla recentemente riabilitata Plaza del Cristo, calle Brazil, e mi colpiscono due moto davanti al Canchullero, ristorante discreto, economico e con fama da Trip Advisor. Una Africa Twin 600 cc e una BMW GS 800 cc. Merce rara come il parmigiano reggiano a Cuba. Continuo a camminare e mi lascio le due moto alle spalle, percorro un isolato e poi non resisto più: devo conoscere le persone che guidano quelle due belve. Entro al Canchullero, al primo piano niente, al secondo scrogo qualcuno che potrebbe essere un motociclista, ma è seduto a un tavolo troppo numeroso. Salgo al terzo e li vedo li, riconoscibili tra mille, i proprietari delle belve. Pantaloni comodi, stivaletti o scarponcini, camice sportive. Mi presento, prendo un daiquiri, e parte la conversazione. Kai, polacco, arredatore di ristoranti, ha comprato la moto a San Francisco tre mesi fa, e va in giro promuovendo One Tank, un'iniziativa in cui ristoratori devono preparare dei piatti esclusivamente con ingredienti trovati utilizzando un serbatoio di 12L della sua GS. Mi spiega come cadere in moto e dove comprare una moto in America Latina. Take it slot and enjoy the ride, it is not about how many kilometers you do. Hunts invece è svizzero, e ogni un paio d'anni si fa un pezzo di America, because traveling by bike is like going alone without ever being alone. Sempre trovi qualcuno con cui condividere esperienze. Il sangue scorre a mille nelle sue vene, si capisce dalla passione che mette nei suoi racconti. Chiacchieramo per un'oretta e poi scendiamo a vedere le moto.

Una vecchia ubriaca si ferma davanti a noi e comincia a palpeggiarci a turno, imitando un ipotetico rombo di motore, un motore scarburato a causa della mancanza di denti in bocca. Hunts appoggia una pelle di pecora sulla sella della moto, dovresti comprarla anche tu Kai, ti permette di aver caldo quando fa freddo e di non sudare quando fa caldo. Accendono le moto, gli occhi mi si illuminano non appena ne sento il rombo. Salutano e partono per la prossima avventura. Io vado verso il Capitolio, ce la posso fare. Davanti al Kid Chocolate, la palestra dove si allenano i migliori atleti cubani, un paio di trans mi lanciano dei baci. Ricambio. Ci sono certe sere in cui vale la pena restare a casa a guardare delle serie TV. Altre no.